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Mototurismo da coronavirus: da Scopello a Sciacca

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La parte difficile, quando ci si risveglia a Scopello, è ignorare il mare dello Zingaro. Ma si deve risalire in sella per completare la nostra serie di mini viaggi da affrontare in regione in tempi da coronavirus.

Risvegliarsi a Scopello è una gioia in sé. Il borgo così piccolo che lo si possiede già la sera dell’arrivo. La mattina significa svegliarsi a casa, uscire per fare colazione con un paio di cassateddi di ricotta oppure una granita con la relativa brioche. Con un caveat, visto che cerco di essere un relatore più o meno obiettivo: le granite della Sicilia occidentale non sono degne di slacciare i sandali – per usare una citazione evangelica – a quelle della Sicilia orientale. E nemmeno le brioche. Ora che mi sono tolto questo peso, possiamo prendere una granita. Da queste parti i classici sono limone o, in stagione, gelsi neri. Io propendo per quest’ultima. Con panna, grazie.

Il problema di essere a Scopello in moto è che c’è la riserva dello Zingaro ad un paio di chilometri. Ed è un posto dove la moto non serve. La scelta giusta è entrare a piedi e seguire i sentieri, sgranando gli occhi per la bellezza delle calette in cui fare il bagno prima di riprendere la strada. Stile splash-on splash-off, per parafrasare i sightseeing tour delle capitali. Magari arrivando alla Grotta dell’Uzzo, vicino all’omonima e splendida Cala. Nella grotta sono state rinvenute abbondanti prove di un insediamento umano risalente a 10.000 anni fa, con graffiti, selci lavorate, ossidiane. Oltre a scheletri umani e di animali, probabilmente oggetto di caccia da parte degli occupanti della grotta. Insomma, la riserva offre fin troppi motivi per restare qualche giorno in zona.

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Caletta vicino lo Zingaro.

Per chi invece non volesse, risaliamo in sella e partiamo alla volta di Trapani. Andiamo a riprendere la SS187 e la imbocchiamo verso occidente, fino ad incontrare le indicazioni per Custonaci e poi di nuovo quelle per Trapani, stavolta sulla SP18.

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La Marina di Castellammare.

Questa è una piacevole provinciale fedele al profilo della costa. Arriva al capoluogo di provincia dopo aver attraversato la borgata marinara di Bonagìa, dove si può ammirare un’altra importante tonnara del XIII secolo, ora restaurata e trasformata in resort. Poco oltre, la località di Pizzolungo, la cui storia risale ancora più indietro nel tempo.

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La Tonnara di Bonagìa.

La leggenda, infatti, dice che lì approdò Enea per seppellire il padre Anchise.

Il luogo è noto anche per la strage compiuta dalla mafia nel 1985, quando tentò di far saltare in aria il giudice Carlo Palermo, togliendo però la vita a due gemellini che andavano a scuola con la madre, morta anche lei in questo ripugnante attentato. Ancora una volta orrore dei fatti e bellezza dei luoghi, una contrapposizione non rara. Pochi chilometri ancora ed arriviamo sul lungomare di Trapani. La città è una falce che si assottiglia e si protende nel mare, verso ovest. Il lungomare è il lato settentrionale, il porto quello a sud. In punta alla falce, la Torre di Ligny, la bella costruzione difensiva risalente al XVII secolo che è uno dei simboli della città ed ospita ora un museo.

Tramonto sulla Torre di Ligny.

A poca distanza, su un’isoletta a pochi metri dall’estremità del porto, il castello della Colombaia è una fortezza la cui fondazione è così antica che l’attribuzione ad Amilcare Barca al periodo della prima guerra punica è solo l’opzione moderna. Quella che si spinge più indietro, fino al XIII secolo a.C., colloca la costruzione al tempo del primo sbarco degli esuli troiani, dopo la fuga dalla loro città sconfitta. Ma è una leggenda non supportata da adeguata documentazione. Di sicuro non è da annoverare fra le costruzioni abusive degli “allegri” anni ’70. Almeno questo…

Non ci fermiamo a Trapani, rimandiamo il meritato approfondimento ad un’altra occasione.

Proseguendo sulla SP21, incontriamo le prime saline. A seconda della stagione, gli appassionati di ornitologia possono divertirsi ad osservare una grande varietà di specie, fra cui aironi ed anche i fenicotteri rosa. Oppure si può visitare l’interessante Museo del Sale, prima di proseguire verso Marsala. Prima di raggiungere la città c’è un intero mondo, che è la laguna dello Stagnone. Altre saline di cui abbiamo parlato in precedenza, la spiaggia di San Teodoro, la strada sommersa che dalla terraferma porta sull’isola di Mozia e che si può percorrere anche a piedi, vista la scarsa profondità della laguna.

Lasciamo la SP21 per goderci la laguna anche nel tratto in cui un’altra strada, più stretta, segue fedelmente la riva per qualche chilometro, offrendo le più belle vedute di questo posto magico. Ecco Marsala. Come Trapani, merita un approfondimento importante, lo prometto per il futuro. Magari parlando dei suoi vini, il suo oro. Sia in senso figurato che letterale, essendo proprio le varie tonalità dell’oro il colore tipico del Marsala. Entrando in città, passiamo praticamente  su Capo Boeo, detto anche Lilibeo dal nome della città cartaginese — e poi romana — che vi prosperò. Il luogo ha una sua valenza geografica, oltre che storica. È infatti il punto più occidentale della Sicilia (escludendo le isole minori) ed è anche il confine ideale che separa il mar Tirreno dal Mediterraneo propriamente detto.

Poco più avanti, facciamo una breve sosta a Porta Garibaldi. Appena un attimo, per dare una fugace occhiata al piccolo ma molto suggestivo mercato del pesce. Si trova proprio dietro la porta monumentale, costruita alla fine del XVII secolo e che si chiamava Porta Mare fino a quando fu attraversata da un uomo barbuto e dai suoi soldati l’11 maggio del 1860. In meglio o in peggio, quelle persone cambiarono le sorti dell’Italia. Il minimo è che cambiassero anche il nome della porta.

Ancora una volta lasciamo il mare e torniamo all’interno dell’Isola.

Uno sguardo alle cantine Florio, poi abbandoniamo la città per seguire i passi di Garibaldi verso Salemi, sulla SS188. Una statale che ha un tracciato veloce e non molto movimentato per una quindicina di chilometri, attraverso i tanti vigneti che sono la coltivazione principale della zona. Poi arrivano più curve, la strada diventa gustosa e permette un buon livello di godimento motociclistico.

Il castello di Salemi.

Poi eccoci a Salemi, la prima capitale dell’Italia in via d’unificazione. Volendo fare una sosta per il pranzo, non mi stanco di consigliare il ristorante La Giummara, con un rapporto qualità prezzo difficile da replicare. Pancia piena o meno, proseguiamo in direzione di Santa Ninfa, seguendo la SS188 che s’inerpica sulla collina con bei tornanti abbastanza ampi. In cima, prendiamo la SS119 in direzione di Alcamo. La vista è splendida ed il tracciato non delude, anche se bisogna fare attenzione perché gli incontri con greggi di pecore sono abbastanza frequenti. E se non s’incontrano le pecore, si passa comunque su quello che hanno lasciato sull’asfalto, materiale che su di loro ha un evidente effetto lassativo.

Dopo meno di 15 chilometri saremo arrivati al Cretto, l’opera di Alberto Burri.

Grande come un paese, ricopre le macerie di Gibellina, rasa al suolo dal terremoto del 1968. Blocchi di cemento grandi come isolati.

Il Cretto di Burri sui ruderi di Gibellina.

Gli stretti passaggi fra i blocchi sono le vie, ancora percorribili, di quest’opera che ha cristallizzato la memoria di un trauma doloroso. Del paese nuovo abbiamo già parlato in precedenza e l’avevamo anche intravisto poco prima, fra Salemi e Santa Ninfa, passando sotto la grande stella di Consagra. Il senso di solenne viene trasferito da questo cemento molto chiaro, che il sole rende abbagliante. A poca distanza, contattando l’associazione che se ne occupa, è visitabile il paese fantasma della vecchia Poggioreale, abbandonata dopo il sisma e ricostruita più a valle. Ma basta con le rovine recenti, è il momento di rimetterci in sella per andarne a cercare altre, molto più antiche.

Ritorniamo verso Santa Ninfa sulla SS119, poi prendiamo l’autostrada (chiedo perdono, sono meno di 10 chilometri!) in direzione di Mazara del Vallo, uscendo al primo svincolo, cioè Castelvetrano. Senza entrare in paese, puntiamo verso la SS115dir. Pochi chilometri, lungo i quali fare attenzione ad eventuali rilevatori di velocità, visto che la strada è larga e quasi senza curve, ma il limite è generalmente fissato a 50. La nostra destinazione è raggiunta, siamo a Selinunte.

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Tempio a Selinunte.

Alla nostra destra si apre il parco, che può vantare il primato di area archeologica più grande d’Europa.

Un posto che offre anche magnifiche vedute sul mare, oltre che sulle rovine dell’antica colonia. Qui i terremoti non sono l’unica causa dei crolli, ci sono 2.700 anni di storia che pesano sulle pietre che stanno davanti a noi.

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Colonne dei templi di Selinunte.

Quelle di Selinunte, che prese il nome dal fiume Selinon, nei pressi del quale sorge. Fiume che a sua volta mutuò il nome da quello del prezzemolo selvatico che abbondava sulle sue rive. Colonia fondata da coloni, Selinunte deve la sua origine alle genti di Megara Hyblaea, colonia greca in prossimità dell’attuale Augusta, in provincia di Siracusa. Diventata florido porto commerciale, diede sfogo alla natura umana, alleandosi con Siracusa e cercando di espandersi ai danni di Segesta. La quale reagì chiamando in aiuto Atene, alla quale non parve vero di avere una scusa per venire in Sicilia con l’esercito. Rimediando però una sonora sconfitta proprio a Siracusa.

Non solo pietre nel parco archeologico.

Fra i due litiganti impegnati a darsele di santa ragione, arrivò il leggendario terzo che gode: Cartagine, che geograficamente vantava anche una certa competenza sulla zona. Selinunte fu espugnata con il solito corredo di massacri, distruzione e tutto quello che è sul menu di una guerra ancora oggi. Insomma, se si fanno parlare le pietre, c’è da starle ad ascoltare per un bel pezzo. Passeggiare per questo grande parco è una vera gioia, sia per la bellezza dei templi che per quella del mare e delle colline circostanti. È una visita che può stancare fisicamente, ma che rigenera l’anima. Del resto, per rinfrescarsi basta uscire dal parco e percorrere le poche centinaia di metri fino al mare.

Marinella di Selinunte.

La frazione di Marinella è ricca di bar in cui prendere un calice di vino lasciando vagare l’occhio sulla distesa azzurra, oltre la quale c’è l’Africa. Una passeggiata fino all’estremità del molo, dove ora una panchina permette di sedersi e guardare l’infinito, senza doversi sforzare ad immaginarlo al di là di una siepe, come fece Leopardi.

Con gli occhi pieni dell’azzurro del mare e dell’oro del sole, ci mettiamo in sella per l’ultimo tratto di strada.

Riprendiamo la SS115dir per tornare indietro, lasciandoci il mare alle spalle. Poi togliamo il “dir” dalla nostra giornata e prendiamo la SS115 senza ulteriori appendici, in direzione di Agrigento. Il nostro percorso verso occidente si era esaurito a Marsala, ora procediamo spediti verso est e la destinazione finale di oggi: Sciacca.

Ci arriviamo dopo qualche decina di chilometri di statale veloce e poco motociclistica. La città ha origini così antiche che si confondono col mito, visto che vi compaiono Dedalo, Minosse ed il re sicano Kokalos. Dopo queste figure, la storia di Sciacca presenta la solita, lunghissima sequela di conquiste e dominazioni. Ma noi siamo qui oggi e possiamo permetterci di dedicare ai fenici un pensiero più o meno distratto, mentre passeggiamo sulla splendida piazza Scandaliato. Praticamente un belvedere sul porto peschereccio, uno dei più importanti della regione. E sul mare. Su quel mare che vide, nel 1831, sorgere dalle acque una nuova isola, eruttata da un vulcano sottomarino a una trentina di chilometri dalla costa saccense.

Immediatamente i 4 chilometri quadrati di materiale eruttivo furono oggetto di disputa fra gli inglesi (che la battezzarono Graham Island), i francesi (che scelsero Ile Julia) e ovviamente i siciliani (che omaggiarono il re chiamandola Isola Ferdinandea). L’isola, vedendo in che mondo era capitata, decise che non ne valeva la pena e s’inabissò pochi mesi dopo, chiudendo la questione.

Sciacca è nota per le sue ceramiche, di tradizione antichissima, che alcune fonti datano addirittura al XIII secolo.

La fama che raggiunsero fu tale che — giusto per ricollegarci ad una tappa del nostro giro —  mattonelle saccensi furono richieste nel 1498 per la decorazione del Duomo di Monreale. Non meno rinomate sono le sue acque termali, che sgorgano da numerose sorgenti e che hanno composizione e proprietà anche molto diverse fra loro. Sul monte Kronio esistono inoltre delle grotte naturalmente sature di vapore, dove la temperatura è di circa 40 gradi. Sono chiamate Stufe di San Calogero e leggenda vuole che siano state scoperte e adattate all’uso da Dedalo in persona. Chissà. Un’attrattiva di Sciacca più moderna delle grotte è il Carnevale. Ricchissimo di carri, iniziative e partecipazione, è uno dei più importanti della Sicilia insieme a quello di Acireale.

Passiamo all’architettura: la lista dei motivi d’interesse è lunga, ma mi piace citare palazzo Steripinto, per la sua bella e rara facciata a bugnato “punta di diamante”. Anche qui ci ricolleghiamo al nostro itinerario perché uno dei pochissimi altri esempi è il Palazzo della Giudecca a Trapani, mentre fuori dalla Sicilia il più famoso è forse Palazzo dei Diamanti, a Ferrara. Insomma, motivi per godere della serata a Sciacca non ne mancano. Anche senza arrivare al cibo. Ma noi invece ci arriviamo, perché ne vale la pena.

Sciacca è ricca di tentazioni gastronomiche. E chi siamo noi per resistere?

In prima istanza per il pesce superlativo, che arriva freschissimo a pochi metri di distanza dai ristoranti che lo offrono. Ma anche per la tabisca, la tipica pizza contadina condita con pomodoro, cipolla, pecorino, acciughe e olive nere. Semplice e deliziosa. Ma vogliamo parlare dei dolci? L’ova murina sono un’esclusiva saccense e vale la pena di provarne le varie realizzazioni. Sono una specie di versione estiva del cannolo, nata nel XVII secolo, quando la mancanza di frigoriferi rendeva impossibile avere la ricotta decente anche in estate.

Ova murina di Hostaria del Vicolo.

Come tutti i dolci migliori, fa il percorso inverso a quello delle monache che lo inventano: nasce in convento ma poi ne esce. La cialda del cannolo è sostituita da una sorta di crêpe fatta con farina di mandorle tostate a cui si aggiunge un po’ di cacao e cannella. Il ripieno è crema di latte con dadini di zuccata. Con una spolverata di cannella e zucchero a velo, il risultato è puro godimento. Un approfondimento lo meriterebbe anche un’altra esclusiva: i piccoli dolci chiamati cucchiteddi. Ma devo davvero anticipare tutto? Vi lascio la curiosità.

Il centro è ricco di proposte che permettono di godere dell’ospitalità del paese ed i locali in grado di dare soddisfazione non mancano. A me piace segnalarne uno che esce un po’ dai canoni di prezzo dei suggerimenti che mi permetto di dare usualmente. L’Hostaria del Vicolo è un’eccezione per cui confesso il mio entusiasmo. Nino Bentivegna, sua figlia Lila ed il resto dello staff la meritano. Per la tranquillità offerta a chi vuole godersi il pasto, ma anche per la grazia con cui la fantasia entra nelle ricette della tradizione. Per la ricchezza di una cantina rifornita con passione. E poiché il giro di oggi è stato ricco, direi che ci siamo meritati il riposo. Ci sediamo a tavola?

Hostaria del Vicolo.

 

Qui il percorso della tappa di oggi

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