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Virus, decreti e autocertificazioni: il sacrificio del buonsenso

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Chiudere tutti in casa è sicuramente utile per arginare il diffondersi del virus. Ma dopo l’emergenza primaria, non possiamo  sperare che si possano modulare i provvedimenti per ridare a tutti un po’ di comfort psicologico? Un giro in moto non potrebbe essere un buon modo per scaricare la tensione del blocco?

Ogni giorno il bollettino dei decessi e dei contagi provocati dal virus Covid-19 è una conferma dello stato di guerra in cui siamo stati, nostro malgrado, catapultati. E ogni giorno siamo confinati in casa, per non contagiare e non essere contagiati. Rinunciamo al lavoro oppure lo svolgiamo in maniera smart (su questo aggettivo ci sarebbe tanto da discutere). Di sicuro, non usciamo in moto a ritrovare il nostro giardino Zen mentale. Perché non si può, semplicemente. Ce lo vietano tutti i decreti, sparati a raffica in orari improbabili. Contenenti norme sempre più restrittive e sanzioni sempre più severe.

Come se chiedere sacrifici e restringere la libertà personale fosse già una misura di profilassi in sé. Come se l’uso dell’autorità desse quell’impressione di competenza e capacità che rassicura. È comprensibile, le misure e le sanzioni servono per convincere a non uscire di casa quelli che si sentono immuni, oppure più furbi degli altri, anche del virus. Eppure, dopo aver accettato le prime settimane di clausura, qualche riflessione inevitabilmente viene a galla.

Premesso che la tutela del diritto alla salute (fisica e mentale, non dimentichiamolo) è l’esigenza primaria, ci sarebbero alcune considerazioni da fare. Quella che con più insistenza si presenta alla mia mente è questa, che illustro con un’ipotesi: prendo la moto, esco dal garage con il casco (altro che mascherina, sono dentro un microcosmo tutto mio), faccio un giro da 200 km. Non corro, non m’interessa, voglio solo scaricare le tossine della vita quotidiana godendomi la bellezza del mondo, quella che non è intaccata dalla presenza di questo nuovo e letale virus.

Al limite, forse mi fermo a fare rifornimento ad un distributore self service. Nell’ipotesi più sociale, sarò stato a 10 metri dall’essere umano più vicino, indossando comunque un casco e i guanti. In che modo potrei mai contribuire al contagio? Come potrei avere una parte attiva o passiva nella diffusione del virus? A meno di incidenti, non avrei nemmeno alcun impatto sul sistema sanitario. E non è che si cada ogni volta che si esce in moto! Ci sono più probabilità di farsi male cadendo dalla scala, dentro casa, mentre aggiustiamo qualcosa che non ne aveva bisogno, giusto per ingannare il tempo.

Se faccio un giro, non incontro nessuno, mi rifornisco al self service, come potrò infettarmi o infettare qualcuno?

Perché vietarmi l’uscita in moto rigenerante? Sono disposto ad autocertificare che mi fermerò solo a fare rifornimento. C’è un’emergenza e non voglio contribuire a renderla peggiore. Ma il buonsenso dice che non lo farei, con queste modalità. Perché sacrificarlo? Perché credere di proteggere la mia salute polmonare in questo modo, minando serenamente il mio equilibrio psicologico?

Io credo che, considerata la durata di questa situazione, forse sarebbe il caso di iniziare a rivedere norme nate per arginare un disastro. Un po’ come quando si rompe un flessibile del lavello in cucina e si rischia di dover rifare tutto il parquet. In un primo momento si blocca l’erogazione dell’acqua a tutta la casa. Ma senz’acqua non si può stare e, poco dopo, si modula il provvedimento e si argina il problema usando mezzi di contenimento disegnati con più finezza. Forse si può fare.

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