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Un milione di chilometri – capitolo 2

Un milione di chilometri APRILIA PEGASO CUBE 650

CAPITOLO DUE:

LA PRIMA VERA MOTO!

Era il 1983 quando trovai per casa una rivista, anzi la rivista di moto per eccellenza: Motociclismo, e dall’ 86 non manco un numero, anche doppie copie in alcuni casi. La bibbia delle due ruote mi aprì un mondo ed avendo a disposizione, almeno su carta, tutte le moto del mondo compresi ben presto che la Vespa sarebbe stata, di lì a poco, una cosa passeggera. Le enduro mi avevano letteralmente folgorato, fu chiaro che erano tutto quello di cui avevo bisogno per viaggiare senza limiti.

Il desiderio espresso da mio fratello, di avere una 125 al compimento dei 16 anni fu esaudito dai miei e rappresentò la mia fortuna, oltre alla sua naturalmente. La moto era per lui ma le pressioni che esercitai su di lui, dopo attente e scrupolose letture della bibbia, furono tali che indirizzai la scelta non sulla Cagiva Aletta Rossa o Gilera Arizona, vere e proprie best seller del momento, ma verso un modello sempre italiano di un’ azienda che andava affermandosi nel settore delle ottavo di litro; sto parlando della Aprilia Tuareg 125!

Aprilia Tuareg 125, la moto per giovani esploratori del 1986

Aprilia stava passando dai cinquantini ai ben più nobili 125, che all’ epoca facevano la voce grossa nelle classifiche di vendita, e dotare il Tuareg del mitico Rotax rendeva bene l’ idea di come volessero emergere a Noale. Nonostante le prestazioni, le finiture e quell’ aria da Dakar, il legittimo proprietario della moto in questione si stanco’ ben presto dell’ oggetto che, di nascosto, iniziai ad usare io. L’ età e la patente non le avevo ancora ma furono sufficienti 2 km appena per far invecchiare di colpo sia la Vespa che il Bravo. Quello che fino a quel momento era per me il massimo della performance su due ruote divenne obsoleto come un telefono a gettoni di fronte ad uno smartphone. Il Tuareg era terribilmente migliore in tutto, frenata, comodità, velocità, autonomia e si avvicinava finalmente ad una moto vera, da grandi. Gli anni Ottanta furono l’ età dell’ oro per la categoria 125 e le novità venivano sparate dalle case a getto continuo con Motociclismo a fare da ambasciatore. Con la promessa di studiare, non mantenuta, e col lavoretto estivo, roso dal desiderio di novità, dopo aver preso la patente A permutai il Tuareg con una Wind; sempre Aprilia ma ultimo modello.

A dire il vero il lavoretto estivo non bastò e dovetti dilaniare il tesoretto di donazioni e regalini ricevuti per le classiche feste religiose ma che importava? La Wind era meglio in tutto, estetica più accattivante, motore più potente, serbatoio con due tappi e più capiente, fino a 500 km di autonomia e doppio freno a disco, credo che ancora oggi la troverei divertente da guidare.

L’Aprilia Tuareg Wind che riprende nei colori la moto del deserto per eccellenza, la Honda Africa Twin

Tutti questi upgrade potrebbero far pensare che avessi trovato l’ eden a due ruote ma come mi capiterà spesso in seguito, non mi trovai in piena sintonia con quel modello. Il motore era molto spinto e gradiva regimi sempre elevati ma questo aspetto del brillante due tempi cozzava con le mie scarse finanze e la grande voglia di macinare km, così finiva che la valvola allo scarico si incrostava di continuo. Inoltre non potevo entrare in autostrada e per uno che già pensa a viaggiare in grande questo è un handicap non da poco. Dopo soli 14 mesi ed un tragico contatto con un guard-rail a seguito del quale il pedale del freno mi entrò nel polpaccio compresi che i tempi erano maturi per passare al 4 tempi. Il 125 di Noale si rivelò comunque una discreta nave scuola per quanto riguarda la manutenzione spicciola della moto che mi sarebbe stata utile in seguito, anche se dotata di miscelatore e quindi non più schiava delle alchimie benzina-olio, aveva pur sempre una catena da registrare e la valvola allo scarico da pulire con periodicità.

La necessità di un mezzo efficiente e a punto si faceva sempre più strada nelle mie convinzioni non al pari, purtroppo, della necessità di un abbigliamento adeguato e a parte il casco, che per me fu sempre naturale oltre che obbligatorio indossare, uscivo con jeans, scarpe da ginnastica e come massima protezione improbabili giacche buone per sciare e per garantire un ottimo effetto vela, non proprio rassicurante alla guida di un motoveicolo.

Alle volte marinavo la scuola al solo scopo di macinare km e una mattina decisi di arrivare a San Marino.

Avevo calcolato tutto: il tempo ed il percorso, erano 290 km fra andata e ritorno e a pranzo sarei stato a casa. Unico, alquanto umido, contrattempo fu che a Fano piovve l’ impossibile e in 3 minuti fui zuppo da capo a piedi. Giunto a casa, mia madre vedendomi in quelle condizioni non proferì parola, ma era chiaro come il sole che dove abitavamo non aveva piovuto affatto.

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