Motospia

Un milione di chilometri – capitolo 7

Un milione di chilometri APRILIA PEGASO CUBE 650

CAPITOLO 7

MOTO GUZZI QUOTA 1000 KM 56.000

 

Col tempo e l’ esperienza crebbero di conseguenza anche le aspettative circa le caratteristiche che cercavo in una nuova moto, la volevo più comoda, con meno vibrazioni e più autonomia. E per ottenere tutto questo scelsi di salire in… Quota, la maxi enduro di casa Guzzi. Un articolo letto sull’onnipresente Motociclismo, circa l’ impresa di un certo Claudio Bertazzoni che, supportato dal concessionario Moto Guzzi di S. Benedetto del Tronto, aveva risalito le due Americhe fino all’ ultima strada percorribile in Alaska a ben 37° sotto zero proprio con un Quota, mi mise in subbuglio e accese la classica lampadina.


L’ articolo era scarno e mancavano i particolari ma la sostanza era che con “quella” moto l’ impresa era possibile, anzi era stata compiuta. E’ con questa convinzione e armato di tanta pazienza che mi recai dallo stesso concessionario supporter dell’ impresa, Simonelli moto, pronto alla battaglia perché allora forse più di oggi, le moto con 60.000km non è che vadano poi a ruba sul mercato dell’ usato.
Per mia fortuna trovai in concessionaria degli appassionati prima che dei commercianti e dopo quattro chiacchiere fra amici ne uscì con l’ ordine per una nuova Moto Guzzi Quota 1000 i.e.
La mia prima maxi cilindrata, la prima a cardano, ad iniezione, tante novità tecniche per un solo vecchio scopo: macinar km. Ritirata il 18 Dicembre, il 27 dello stesso mese era pronta per il primo tagliando e quattro giorni più tardi era già diretta verso Zurigo per un altro Capodanno al fresco. La grossa bicilindrica italiana, per sua natura, aveva bisogno di un lungo ed accurato rodaggio per mostrare al meglio le sue qualità ma non mancai di notare subito che nonostante i kg in più rispetto al mono Aprilia, con i miei 1.93 cm non facevo poi troppa fatica a gestirla.
Inoltre sia il motore stesso che la sua iniezione elettronica donavano alla “macchina” una elasticità ed una morbidezza di utilizzo che uniti al serbatoio da 20 lt e a consumi accettabili allargavano di molto il mio raggio d’ azione, diciamo fino a 350km comodi. Il primo giorno tanto per gradire, scesi nella capitale, per fare subito un 500/600 km. In quel primo giro con la mia nuova endurona, la strada scorreva in tranquillità: 200, 250 e oltre 300 km con la spia della riserva non dava segni di vita; “fantastico” pensai, con evidente soddisfazione. Allo scattare dei 385 km però, smise di dare segni di vita anche la moto, oltre alla spia e capì cosa può voler dire un assemblaggio approssimativo: la spia della riserva non era stata collegata!
Il Capodanno precedente, con le sue gelide avventure, non era stato sufficiente a placare la mia sete di km dato che mi ritrovai sempre diretto verso la Svizzera quando la neve fece capolino all’altezza di Bologna e con l’ aiuto di un freddo polare fece letteralmente esplodere la macchinetta fotografica sita nella borsa posteriore. Giunto al confine i finanzieri mi avvertirono che gli spazzaneve non sarebbero più passati causa neve veramente eccessiva, così promisi loro che sarei uscito poco dopo per trovare un albergo ma mentì e proseguì fino al Gottardo. Nel benzinaio prima della galleria con la mia compagna ci rifugiammo nei bagni, illudendoci di poter passare la notte li dentro, ma alle 22.00 la nostra agognata piccola oasi chiuse i battenti e fummo rispediti di fuori. Risaliamo in moto e al momento di accenderla mi accorgo che fra il blocco ed il motorino c’è un blocco di ghiaccio e con i cavi esterni del motorino di avviamento causa un corto. La metto in moto a spinta sotto la tettoia del benzinaio, sgonfio le gomme e ci avventuriamo per strada. La neve aderisce al suolo sempre di più e io cerco di avanzare a 20 forse 10 km/h. Di solito dall’altra parte del tunnel si trova un meteo sensibilmente diverso ma non quella volta infatti nevicava se possibile, anche di più. Non potendo fare altrimenti andiamo avanti fra cadute sfiorate e tanta incertezza fino a quando, usciti dall’autostrada, approfittiamo dei solchi lasciati dalle automobili e ci facciamo guidare stando bene accorti a non uscirne. La velocità media, ovviamente ne risentì e dopo essere partiti da casa alle 9.00 del mattino precedente approdammo da mia zia alle 4.00 del mattino. Sinceramente non so dire se fu l’ ottimo bilanciamento della Guzzi o il fatto che mi stavo “facendo”, motociclisticamente parlando, ma condussi la nave in porto e senza danni (comprendendo in maniera brutale che va bene il freddo, va bene la pioggia ma la neve non va affrontata con sole due ruote e lo choc fu tale che quella all’Elefantentreffen del 2013 rimarrà la mia unica presenza al più famoso raduno invernale). L’aver totalizzato 5000 km fra Dicembre e Gennaio alimentava la mia autostima, e pur senza vantarmene con nessuno sentivo crescere di pari passo la soddisfazione. La poco onerosa manutenzione del bicilindrico di Mandello ebbe certamente un ruolo nel farmi innamorare di questa moto e quando finalmente la dotai di un tris di valige Nonfango sembrava che nulla potesse fermarmi. Quel suo rombo inconfondibile sembrava dovermi accompagnare per chissà quanto altro tempo ancora ma la realtà fu diversa; io non mi sono mai legato particolarmente ad un modello specifico di moto, forse ad un marchio, anzi due Moto Guzzi ed Aprilia, ma ad un modello mai. Anche se la moto che possiedo mi soddisfa pienamente, mi è sufficiente leggere di un nuovo modello per scatenare in me il desiderio di averla. Ricominciando ogni volta, con una guida differente, e diverse reazioni è come se mi costringessi ad andare più piano, a scoprire lentamente la mia nuova compagna a due ruote e questo credo sia solo un bene per la mia sicurezza. Inoltre, dati i miei cospicui kilometraggi, conviene darla indietro (voglio credere sia così) prima che superi la soglia di non ritorno; le due volte che ho superato i 100.000 km agli occhi del concessionario apparivo quasi come un malato grave, per il quale non c’è cura.
Dopo il tremendo Capodanno e la consueta Pasqua a Parigi in tre giorni e mezzo era venuto il momento per uno dei viaggi più importanti della mia vita: Caponord, senza nemmeno aver ben capito dove si trovava e con scarsissime, quasi nulle, informazioni su cosa vedere, insomma solo io e la mia compagna di allora, la moto ed un punto dove arrivare, un punto molto a nord! In teoria sarebbe dovuta essere una spedizione davvero corposa a sentire i vari amici che durante l’ inverno progettavano e promettevano di imbarcarsi con me in questa avventura ma con l’ avvicinarsi dell’ Estate e della partenza i buoni propositi si sciolsero al sole e alla fine rimasi come ero partito: da solo. Le motivazioni addotte furono le più svariate: fidanzate contrarie, moto non adatta e inevitabilmente i soldi che mancavano sempre. Personalmente il problema fondi per i viaggi l’ ho sempre risolto andando a tagliare tutto il superfluo durante l’ anno e la somma necessaria è sempre saltata fuori ma comprendo che alla fine è un discorso di priorità personali. L’ abbigliamento per la spedizione consisteva in una tuta di pelle integrale inadatta sia al caldo che al freddo, scarpe al posto degli stivali a causa della mia insofferenza al caldo, guanti assolutamente permeabili all’acqua e tuta antipioggia. Per dormire una tenda da quattro soldi ed un solo sacco a pelo. Non molto furbo fu portare la carta di credito e dimenticare a casa il pin, così che la differenza fra il turismo ed il vagabondaggio la fecero le 100.000 lire ed i 100 marchi che avevamo con noi. Nel primo tappone Civitanova – Copenaghen nell’attraversare la Germania, in un pomeriggio di caldo tropicale, mi affianca un tizio e mi segnala una perdita d’ olio con relativo fumo dalla parte bassa della moto, preoccupato accosto subito. Prima della partenza avevo eseguito un tagliandone per stare tranquillo ma avevo pure montato io stesso un manometro dell’ olio dove c’ era originariamente il bulbo pressione olio e proprio dal mio lavoro scaturì il danno: si era allentato il manometro e del lubrificante fuoriusciva finendo sulle mie gambe e sugli scarichi roventi causando il fumo. Grazie al litro d’ olio che mi ero portato dietro in 40 minuti sono di nuovo in marcia e così una riparazione volante e 23 ore dopo arriviamo a Copenaghen ed io sperimento lo stato di alterazione psico-fisica che solo tirate così lunghe e insensate possono darti, ma non contento per risparmiare “spiccioli” ci infiliamo da portoghesi in un campeggio per uscirne la mattina presto senza aver debitamente ricaricato le batterie.
Purtroppo nella capitale danese va in scena un litigio di coppia memorabile che ridurrà i dialoghi, per tutto il resto del viaggio, a sintetici sì o no e non servirà a nulla acquistare un altro sacco a pelo…
Finalmente mi decido a dare un’ occhiata alla cartina e realizzo che seguendo la traccia della E 6 posso arrivare a 130 km dalla meta quindi niente di più facile che rimettermi in marcia e dare gas, con un breve traghetto sono in Svezia e poco dopo mi ritrovo nel mio elemento: la Norvegia. Sotto gli occhi iniziano a scorrere paesaggi indimenticabili fatti di altopiani rigogliosi di un verde intenso e traffico inesistente che misto all’andamento della strada mai eccessivamente tortuoso né troppo dritto credo mi abbia aiutato a perfezionare il mio stile di guida fatto di scarse accelerazioni ma anche di scarse frenate.
Zanzare grosse come noci e manifesti con foto di criminali svedesi ricercati nei paraggi rendono un po’ meno idilliaco il nostro attraversamento della terra norvegese e come se non bastasse inizia ben presto a piovere e lo farà per i seguenti 2000 km!!! I limiti del mio approssimativo abbigliamento saltano all’ occhio quando mi ritrovo coi sovrascarpe da buttare, i guanti che raccolgono acqua e la tuta che ne lascia passare copiosamente da qualche pertugio a me sconosciuto.
Umidamente deciso a puntare alla meta mi fermo a Narvik, da dove decido di andare e tornare da Capo Nord in una giornata e per questo motivo prendo una hitte per due giorni. Il perché mi spinsi a lasciare i bagagli per tentare l’ ultimo assalto “alla vetta” fu chiaramente dettato dalla mia inesperienza, ché il traffico a quelle latitudini è pressoché inesistente e all’avvicinarsi del Circolo Polare Artico la media cala per forza a causa dei branchi di renne in libertà. Le caratteristiche hitte, casette in legno dentro ai campeggi dove ti offrono un letto per posare il tuo sacco a pelo e wc/docce in comune, da insperati paradisi in quelle terre inospitali possono rivelarsi diaboliche e anche un po’ fantozziane se non hai sufficienti gettoni per la doccia e quei pochi finiscono nel bel mezzo dell’ insaponamento!
All’alba del giorno dopo partiamo per l’ ultima tappa e, come il giorno prima, la pioggia e il freddo pungente ci accompagnano e in pochi km, complici i fiumi che si creano sulle strade, prendo le sembianze di “un uomo in ammollo” motorizzato. Gli splendidi paesaggi che sto attraversando fanno si che il morale resti alto e distolgono la mia attenzione dal fatto che, alle 8 di sera dopo aver scansato un gregge di renne intente a bere nel fiume che era diventata la strada, sono ancora a 130 km dall’obbiettivo; a questo punto era chiaro che mi trovavo di fronte ad un bivio: o rinunciavo o dormivo lì da qualche parte, per quella sera. Alle 23.00 oramai semicongelato, giungo a Honningsvag, ultimo paese prima dell’ agognato traguardo e posso finalmente fare una doccia calda degna di questo nome e piazzare tutto l’ abbigliamento ad asciugare sul calorifero.
Potete facilmente immaginare la felicità che provai il mattino seguente quando mi accorsi che il riscaldamento era centralizzato e che il vestiario aveva stazionato su un termosifone “spento” per tutta la notte!
Pieno di entusiasmo e naturalmente anche di umidità quasi stessi diventando un essere anfibio, mi metto in marcia per il punto più a Nord di tutta l’ Europa, anche se scoprirò con gli anni che in realtà non è così, quello vero è su un’ penisola nei pressi di Gamvik (Caponord invece si trova in un isola).
Giunto al punto “X” due parole per tentare di spiegare il mio modo di vedere la cosa: in fondo in fondo a me non interessava la Caponord, mitologica meta di tanti motociclisti, ma l’ essere riuscito ad arrivare fin lì, il dimostrare a me stesso di essere capace dell’ impresa, una sorta di autoesame insomma. Non pretendo di essere compreso o imitato nel mio particolare modo di sentire la cosa ma ancora oggi mi stupisce l’ atteggiamento un po’ da “cugino scemo” che mi rivolgono in molti quando racconto di questo mio sentimento.
La prima sosta del viaggio di ritorno è presso una concessionaria di auto americane, perché si sono allentati i collettori di scarico e sembra di guidare un’HD e già che ci sono cambio pure l’ olio, all’epoca gli intervalli erano molto più ravvicinati di oggi.
Sinceramente non so ancora il perché ma il rientro, come sempre, si rivelerà più scorrevole dell’ andata e dopo, 11 giorni e 11.000 insensati km, sono di nuovo a casa, con un’ idea fissa: tornare più e più volte in Norvegia dove si trova “la mia Caponord”. Con l’ impulso ricevuto da questo viaggio chiudo i 12 mesi inanellando 50.000km che sarebbero un ottimo traguardo, se fatti respirando un po’ di più i percorsi e con meno ansia da biker compulsivo, ma l’ esperienza con gli anni muterà tutto, ora lo so.

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