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In Vespa alla scoperta dell’Epiro. Terza puntata: l’Italia

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Dopo avervi guidati fra le strade dell’Epiro greco e poi di quello albanese, eccoci pronti a partire per quello “italiano”. Sbarcata a Brindisi, si fa rotta su Santa Sofia d’Epiro.

Il traghetto che mi riporta in Italia è più piccolo. Sono anche meno le ore di navigazione, del resto. Appena sette. I miei compagni di traversata sono camionisti per lo più. Di motociclisti grandi nemmeno l’ombra. Mi metto sul ponte a guardare l’Albania che piano piano si allontana. Sembra un vecchio animale che dorme sull’acqua.

L’arrivo a tarda sera mi costringe a passare la notte a Brindisi. Prendo una stanza non lontana dal porto, domani voglio ripartire subito. Sistemate Vespa e valigie, scendo a mangiare una pizza. Nonostante l’ora tarda fa caldo. Scelgo la veranda esterna.

Subito mi assale un senso di straniamento. Mi guardo intorno. L’insegna del negozio accanto, chiuso ovviamente, promette in inglese mirabolanti ricostruzione unghie, stelline incluse. Gruppi di euforici adolescenti all’ultima moda strepitano e ridono, ognuno con gli occhi fissi al telefono suo a urlare cose agli altri, che manco l’ascoltano. Più vicino a me, tripudi di fritti riempiono inutilmente tavoli e corpi già pieni, e giacciono tra tovaglioli bisunti. Bentornata in Italia, mi dico. E penso che sono bastate davvero poche miglia marine per passare dal necessario allo spreco. Spero proprio di ritrovare a Santa Sofia d’Epiro un po’ di atmosfera perduta.

L’indomani parto prestissimo. Destinazione Santa Sofia d’Epiro, nell’Arberia calabrese. Spero di ritrovare là un po’ dell’atmosfera perduta…

Come stabilito, prendo la E90 per Taranto poi scendo giù costeggiando lo Ionio. È tutta superstrada, in alcuni tratti piena di camion. La Vespa è grande quanto una loro ruota… ma chi si impressiona è perduto!

Rocca Imperiale annuncia l’inizio della Calabria. È detto il paese dei limoni e della poesia, ed è deliziosamente abbarbicato (magari ne parleremo in un prossimo articolo). Ma adesso proseguo sul mare. È un tratto bellissimo, e all’improvviso in mezzo all’acqua spunta una roccaforte che mi fa immaginare il tempo dei pirati. Quando arrivo a Sibari devo lasciare il mare e prendere per l’interno.

Sto ancora in pianura quando incontro i primi cartelli che mi dicono di andare a destra per Santa Sofia e gli altri paesi limitrofi (Vaccarizzo, San Giorgio, San Cosmo, San Demetrio). Che sono tutti  arbëreshë lo si capisce dal fatto che sono scritti in doppia lingua (Shën Sofia, Vakarici, Mbuzati, Strigari, Shën Miter). Da qui Santa Sofia è il più lontano.

 

Inizia l’arrampicata verso l’Arberia.

Dopo i primi chilometri tranquilli, la strada si fa più impegnativa… e ovviamente più bella. Mano a mano che proseguiamo anche il paesaggio si impreziosisce. È un susseguirsi di colline coperte di ulivi. L’aria si fa più leggera.

Sento la Vespa esaltarsi. Lo stesso capita a me. Prendo tornanti e saliscendi (per niente semplici, in realtà) con fare baldanzoso. Pensando “cosa vuoi che siano queste strade dopo quelle albanesi?!” e ridendoci su. Sto contravvenendo al principio cardine di un qualsiasi dueruotista, e cioè che ogni strada chiede rispetto, e solo dopo averlo ricevuto lo restituisce. Ma ovviamente non me ne accorgo.

Arrivo a Santa Sofia di gran carriera. L’agriturismo dove ho prenotato è 2 km dopo il paese, perciò attraverso la strada principale senza guardarmi troppo in giro. In un punto preciso, dove la strada si stringe tra le case con una leggera discesa, mi prende una sensazione fortissima, come magnetica (l’ho già detto che i misteri esistono e basta). Se voleva essere un segnale di stop, non ha funzionato. Proseguo.

L’importante è presentarsi bene!

Mi lascio Santa Sofia alle spalle. Altri tornanti. A un certo punto vedo il cartello. Il posto è giù da una discesa, sulla sinistra, in curva preciso. Ma c’è uno sterrato per scendere, pieno di sassi, e io tra la baldanza e il non aver calcolato la cosa, pinzo il freno anteriore, prendo l’onda di una crepa nel terreno e sbam! vado giù.

Attutisce il colpo il bordo dello sterrato, più alto e coperto d’erba. La Vespa si sdraia lì, sul lato sinistro. Io mi rialzo e guardo la scena incredula. Dall’agriturismo arrivano in mio soccorso. Sono preoccupati per me, ma io non mi sono fatta niente. Alziamo la Vespa e la portiamo giù. Arrivati al parcheggio, la mettiamo sul cavalletto per controllare i danni. Fortunatamente niente di che. Solo qualche graffio su specchietto e bandone sinistri. Perché presentarsi in modo banale?

“Rinfrescati, ti aspettiamo per il pranzo”. Magiche parole che mi resuscitano.

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Il pranzo scorre perfetto all’ombra di una veranda esterna vista montagne. Tra le specialità locali, molte delle quali autoprodotte (imperdibili i salumi di suino nero, più o meno piccanti), gusto i fillilet. Sono un tipo di pasta lunga, fatti con il ferro da maglia, molto difficili da preparare. Appartengono alla tradizione arbëreshë, che nel tempo è andata intrecciandosi con quella del territorio. Un po’ come la lingua parlata qui, che conservano gelosamente nonostante le difficoltà. Una sorta di albanese medievale, dei tempi di Scanderbeg (esente quindi dalla componente turca che è nell’albanese moderno), con influenze greche (diversi erano i confini degli stati e comunque l’area di provenienza apparteneva all’Impero bizantino, la cui lingua ufficiale era il greco), cui si sono mescolati nel tempo italianismi e regionalismi vari. Chiaro?

Quando si parla di Arberia dire che la faccenda si complica è un eufemismo… qui non c’è il canto di tre sirene ad affascinarmi, c’è direttamente un coro a cappella! Dite che esagero? State a vedere.

Il giorno dopo prendo la Vespa e vado a esplorare il paese di Santa Sofia d’Epiro.

 

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Il monumento agli Albanesi d’Italia.

I due chilometri di tornanti stavolta ce li facciamo con calma. Respiro aria pulita a pieni polmoni. Arrivata in paese parcheggio, tra gli sguardi incuriositi. Auguro un buongiorno generale, prontamente ricambiato, e mi incammino.

Prima tappa: il Monumento agli Albanesi d’Italia. È una grande sfera tipo ottone contenuta in una mezza sfera di pietre. Pare che l’esterno rappresenti la storia, l’esperienza trascorsa dalla comunità arbëreshë, mentre l’interno la bellezza della loro cultura. A me ricorda una barca. Del resto, cinque secoli fa attraversarono il mare per venire qui!

Guardo la scritta ai piedi del monumento. “Oh mia bella terra di Morea! Da quando ti ho lasciato non ti ho più rivista (…)”. Ma come? Morea è l’antico nome del Peloponneso, non dell’Epiro! E sul mio stupore parte il primo gruppo di voci del coro sirenico…

L’iconostasi della chiesa di Santa Sofia Martire.

Seconda tappa: le due chiese. La più antica, del X secolo, è dedicata a Santa Sofia Martire. Quella più moderna, in posizione centralissima, è dedicata a Sant’Atanasio il Grande. Stupendamente decorata.

 

Interno della chiesa di Sant’Atanasio.

Come si vede, entrambe hanno le caratteristiche delle chiese greco-ortodosse, come l’iconostasi e l’altare quadrato nascosto dietro. Quindi gli arbëreshë sono ortodossi, direte voi. Eh no, afferiscono alla chiesa cattolica. In sostanza sono un piccolo Oriente nel cristianesimo d’Occidente! Grazie a loro abbiamo dentro di noi la preziosa eredità bizantino-greca (così si chiama il loro rito: bizantino-greco). Non a caso i non-arbëreshë qui vengono chiamati “latini”. È un tale salto spaziotemporale che mi sembra di sognare. Sireneee, avanti pure col secondo gruppo di voci!

 

Passo nell’immancabile via dedicata a Giorgio Castriota Scanderbeg. Arrivo alla parte più antica del paese. È costruita secondo l’impianto tipico dei rioni, detti gjitonie, con le case disposte a raggiera attorno a uno spazio comune centrale, lo sheshi. Uno schema molto simile a quello dell’accampamento militare, perché i primi arbëreshë ad arrivare erano ex guerrieri. Nella sua versione “civile” ha dato il via a un modello di socialità che non necessitava di luoghi di ritrovo più ampi. Bastava uscire dalla porta di casa e si era “in piazza”! Le donne anziane ancora si ritrovano te sheshi, per chiacchierare o intonare insieme i viersh, gli antichi canti popolari (sirene, armonizzatevi!), indossando i costumi tradizionali della vita quotidiana.

Perché di abiti tradizionali ce ne sono davvero per ogni occasione: quotidiana, solenne, lieta o triste che sia. Si possono ammirare qui a Santa Sofia nel Museo del costume Arbëreshë, che ne ospita una ricca collezione, soprattutto femminili. Quelli deputati alla festa hanno colori sgargianti e raffinatissimi ricami d’oro zecchino. Uno splendore!

Ritornata alla base leggo un libro di canti popolari sofioti (di Santa Sofia) che mi è stato regalato. Ng’e ndikuroja se pangrën u rrija se kisha mallin çë më jip e haja, “Non mi curavo di restare a digiuno perché avevo l’amore che mi nutriva”. Romantici questi guerrieri! Solo che a me il romanticismo mette appetito. Ci pensano i miei ospiti.

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Terzo giorno nell’Arberia cosentina. È ora di visitare la capitale culturale: San Demetrio Corone.

 Il paese di San Demetrio dista circa 15 km da Santa Sofia. Sono curiosa di capire cos’ha di tanto speciale da meritarsi l’appellativo di capitale culturale. Si parte!

Raggiungo la Vespa. “Amore mio, niente perdite nemmeno stanotte!”, esclamo felice a voce alta vedendo che sotto il carter non c’è nemmeno una gocciolina (chi mi ospita penserà SPQL, sono pazzi questi latini…). Comunque, le perdite non ci sono perché qui la strada o sale o scende, il piano non esiste. E perciò la Vespa, padanamente abituata, gode e brucia tutto con furore (cosa ad oggi capitata solo qui)! Solo per questo, lo so, mi ha perdonato la stramazzata di due giorni prima. Anche a lei qui sembra di sognare.

Il cielo blu perfetto di settembre rende ancora più magico il percorso. Sembra di attraversare una strada nel bosco. Luce e ombra si alternano sui tornanti, regalando profumi e sensazioni che ricordano montagne più alte (qui siamo sopra i 500 metri). E là in lontananza s’intravvede lo Ionio. Quando mi avvicino a San Demetrio l’asfalto interrompe la magia, essendo in alcuni tratti parecchio rovinato. Mi concentro. Ma intanto penso anche che Corone è una cittadina… del Peloponneso (le sirene già ridacchiano…)!

 

Il Collegio di Sant’Adriano.

Mi fermo un paio di chilometri prima del paese per dare un’occhiata al complesso di Sant’Adriano. Di origine antichissima (il nucleo dell’abbazia basiliana fu fondato da San Nilo di Rossano nel X secolo), il collegio di Sant’Adriano venne aperto sul finire del ’700 come luogo di formazione del clero bizantino per le comunità locali. Ma nel secolo successivo si decise di affiancare un’istruzione superiore laica, aperta a tutti (anche ai non-arbëreshë). Sant’Adriano divenne così il primo liceo della Calabria, e di altissima qualità formativa. Non solo. Durante il Risorgimento divenne promotore degli ideali liberali e della lotta antiborbonica, e tanti giovani di qua partirono per unirsi alla spedizione di Garibaldi. A centinaia anche dai paesi arbëreshë limitrofi.

Mentre penso al patriottismo di questi “albanesi” che lottavano per costruire un’Italia unita e libera molto più di tanti “italiani”, il coro sirenico attacca… Visito la chiesa accanto.

 

Santi orientali nella Chiesa di Sant’Adriano.

Ci resto male perché ha l’altare latino, da chiesa cattolica, senza iconostasi. Però dicono sia un raro esempio di sintesi bizantino-normanna. In effetti convivono elementi di epoche e culture diverse. Le volte affrescate mi ricordano le chiese bizantine viste di là dal mare, e molti dei santi raffigurati sono orientali. Dell’epoca più antica sono quattro bellissimi mosaici sul pavimento in opus sectile. Il serpente spiraliforme (la foto in apertura) è diventato simbolo della comunità arbëreshë. Poi c’è questo leoncino, che non so perché mi fa sorridere… e mi ricorda un altro mosaico visto… dove pure?

Mosaico di Sant’Adriano.

Ah sì, ricordo! Sul pavimento del Pathirion, l’abbazia bizantina che si trova in mezzo ad altri bellissimi boschi e tornanti nei pressi di Rossano-Corigliano, non lontanissimo da qui (anche di questo parleremo un’altra volta).

Adesso mi sposto in paese. È ora della liturgia. Pronti per la meraviglia? Le sirene si stanno già dividendo le parti…

 

Foglio liturgico in greco albanese e italiano.

Entro nella chiesa intitolata a San Demetrio Megalomartire. Mi siedo in un banco in fondo. Il rito bizantino-greco comincia. Mi hanno dato il foglietto per seguire ma il canto prende il sopravvento e io non capisco più niente. Non solo letteralmente, essendo la liturgia quasi tutta cantata a cappella in greco antico (ma non pensate nemmeno per un secondo a noiose litanie!).

Il fatto è che la musica mi prende completamente. È suggestione pura. Perché le diverse linee melodiche femminili e maschili stanno in certi punti a distanza microtonale. Qualcosa che nella musica occidentale non si usa (essendo da noi l’intervallo più piccolo il semitono, quello tra Mi e Fa, per intenderci, o tra Si e Do) e che ce la fa percepire quasi come stonatura. “Oddio il microtono!”, mi scappa dalla bocca quando me ne rendo conto. Sapevo della sua esistenza da quando studiavo musica ma non l’avevo mai sentito! E cantato per di più!

È difficilissimo perché davvero fuori dall’ordinario per noi. Ma loro, come se niente fosse, tengono queste linee melodiche vicinissime, in equilibrio come funamboli venuti dall’Oriente. E con una potenza vocale che a un certo punto mi sembra di essere sospinta in alto verso Dio. Giuro che dentro una chiesa non ho mai sentito niente di così bello. Pure le sirene tacciono e si limitano a un lungo applauso…

Semplicemente: andateci. È un pezzo d’Italia.

Altro giorno altra montagna. Oggi si va verso il Pollino arbëreshë. Destinazione: Civita.

 Dicono che ne vale la pena quindi vado. Civita dista da Santa Sofia circa 50 km. Direzione Tarsia, là dove ci sono le pale eoliche, poi avanti… bene, si va!

E tutto bene va fino a che raggiungo appunto le pale. Da dove ero prima mica sembravano così vicine alla strada! Mi fermo a guardarle. No no no no che brutta cosa. Era meglio la mucca! Perché niente mi leva dalla testa che la pala più esterna mi colpirà decapitandomi di netto, e la Vespa continuerà la sua corsa guidata dal mio corpo acefalo seminando il panico o nuova venerazione… Dai smettila, mi dico, sii razionale, la pala non può decapitarti! Eppure…vabbè, proviamo… E controllato che in strada ci sia solo io, passo di fianco alla maledetta senza guardare né respirare. Fa un rumore orribile ma non mi colpisce. Tiè! E mentre la mano destra spalanca gaudente il gas, dalla sinistra si alza il dito medio.

Più mi avvicino più il Pollino un po’ mi inquieta. È aspro, quasi nudo, vertiginoso. Ti mette in soggezione, sembra che non ti perdoni niente. Non fare scherzi, gli dico, già ho passato le pale…

Arrivata a Civita parcheggio la Vespa sotto l’immancabile busto dedicato a Scanderbeg. Mi ha protetto in Albania, lo farà anche qui!

 

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Subito mi dirigo al Museo Etnico Arbëresh, che conserva oggetti della vita quotidiana e costumi della tradizione, e anche fotografie e pubblicazioni a tema. Quando racconto del viaggio che sto facendo, gli addetti che mi accolgono mi fanno una gran festa.

Il paese è famoso per lo spettacolare canyon del fiume Raganello.

Esco e faccio un giro. Il paese è famoso per lo spettacolare canyon del fiume Raganello, uno dei più alti d’Italia. Raggiungo il punto panoramico. È da vertigine. Giù in fondo si intravvede il ponte del Diavolo. Sì sì, bellissimo eh, c’è anche un sentiero per arrivarci, ma preferisco guardare da lontano…

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Le gole del Raganello.

Così passeggio in mezzo alle case del centro storico. Alcune hanno facciate antropomorfe e comignoli bizzarri (il paese è famoso anche per questo). Il Pollino incombe ovunque! La cosa mi mette appetito.

Mi concedo uno spuntino in una sorta di alimentari/gastronomia con tavolini esterni (pratica che ho sperimentato con soddisfazione altre volte nella Calabria “latina” e che vi consiglio caldamente). Gusto un panino con soppressata, caciocavallo e melanzane sott’olio (ah, cosa sono questi panini!), annaffiato da un calicione di vino locale. È un tripudio di rossi che meravigliosamente infiammano.

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Dal punto di vista arbëresh, Civita è famoso per le vallje pasquali: coloratissime danze nei costumi tradizionali della festa, in cui i passanti vengono accerchiati e scortati nel bar più vicino per offrire da bere! Avrei voluto documentarvele in diretta… ma si è messo di mezzo il famigerato virus.

C’è un’altra possibilità per vedere i costumi “vivificati”, ed è la Primavera italo-albanese che si tiene a metà maggio a Santa Sofia d’Epiro.

Virus permettendo io sarò là. Chi volesse raggiungermi può prenotare all’Agriturismo Vemi, che si trova in campagna, oppure al B&B Sophia, alle porte del paese. In entrambe le strutture troverete ripari sicuri per le vostre moto, ospitalità autenticamente arbëreshë (che già da sola, vi assicuro, vale il viaggio), e anche squisiti prodotti del territorio da portarvi a casa… per poi rimpiangere ancora di più!

Vi suggerisco di fare base qui anche per una visita nei dintorni o un tour complessivo dell’Arberia cosentina. Le strutture ricettive non sono molte: per gli arbëreshë l’ospitalità è qualcosa di sacro, e perciò hanno una sorta di remora culturale a farsi pagare per questo. E non aggiungo altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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